Finta frittata di peperoni

 

frittata di peperoni

Finta: probabilmente perchè non ci sono le uova.  Frittata: perchè ha la forma di una frittata, alla fine.  Quindi il nome dato a questo appetitoso piatto dalle mie figlie lo definisco azzeccato.  E’ una ricetta che ho rielaborato da un ricordo.
Avevo due amiche di famiglia di origini campane, due sorelle.  Cucinavano come solo chi ha dovuto lasciare la sua terra d’origine, con il filo dei sapori persi tra le mani. Facevano una pommarola che mai più ho assaggiato; timballi di maccheroni, sartù di riso e un’indimenticabile pastiera.  E poi preparavano  i peperoni con la mollica del pane. Arrivavano a casa nostra con questa meraviglia che custodivano dentro ad un contenitore, sempre lo stesso.  Era una sorta di mattonella di peperoni tagliati  a piccole falde, arrostite nel burro e cosparse di briciole di pane che noi ci litigavamo, puntualmente, poiché era sapientemente dosata e mai bastava. Io, ispirata soprattutto dal sapore e dalla consistenza, ne ho fatto questa specie di frittata. Buona preparazione.

Ingredienti per 4 persone: 4 peperoni, uno spicchio di aglio schiacciato con il palmo della mano, un cucchiaio di capperi (facoltativi), 4 cucchiai di pane grattugiato,4 cucchiai di olio di oliva, prezzemolo, sale e pepe nero
Occorrenti: teglia bassa, tagliere coltello, carta da forno o sacchetto da pane, cucchiaio
Tempo di preparazione: 10 minuti + la cottura dei peperoni per spellarli

peperoni

La prima cosa da fare è togliere la buccia ai peperoni.  Si può fare in due modi:  o mettendoli ad arrostire uno alla volta infilati su una forchetta sopra la fiamma del gas, o mettendoli in forno a 180° per almeno 30 min, rigirandoli 2/3 volte, dopo averli lavati senza asciugarli.  Si mettono poi in un sacchetto del pane ben chiuso o nella carta da forno e si aspetta 20 min. Trascorso il tempo la pelle si toglierà e quasi totalmente. Il peperone che si spella con più facilità è quello rosso, di seguito quello giallo; mentre il verde è più tenace. Probabilmente è una questione legata al pigmento.

peperoni nel cartoccio

Procedo mettendomi dei guanti usa e getta, per evitare di scottarmi. Una volta tolta la pelle sciacquate i peperoni sotto acqua corrente per togliere ogni residuo di buccia e di semi e stendeteli su carta da cucina. Se pensate di cucinarli il giorno dopo, conservateli coperti con pellicola e abbiate l’avvertenza di cambiare la carta da cucina: rilasciano abbastanza liquido.

peperoni senza la pelle

Tagliate i peperoni a listarelle o a piccole falde.  Scaldate bene olio e aglio dentro una larga padella e versate i peperoni. Unite il sale e mescolate. Rosolateli molto bene per 3 minuti i girandoli spesso e poi aggiungete il pane e mescolate. Rosolate il tutto ancora per 3 min, unite il pepe e i capperi se previsti. Schiacciate la frittata con il dorso del cucchiaio e girando la padella rovesciatela su un piatto largo,  oppure fatela scivolare sul piatto. Cospargete con prezzemolo. E’ ottima servita con pesce cotto sulla griglia o a vapore.

Buona giornata a tutti.

 

Broccolo gratinato

Sta nell’ordine delle cose umane e non: tutti abbiamo qualcosa da farci perdonare, nonostante.
Prendiamo il broccolo, ad esempio. Malgrado la sua gran buona sostanza e il suo innegabile bell’aspetto cova in sé il germe della colpa. Ha una pecca, non un peccato, ché un broccolo non può peccare: la sua puzza.
E non c’è molto da fare per il nostro caro broccolo e il suo difetto. Mollica di pane, sopra sotto dentro fuori dalla pentola o appesa al coperchio, non risolve. Molto meglio aperture e chiusure mirate di finestre e porte, che son fatte apposta. Ma poi non dura in eterno. Preparate all’istante dei frollini e l’ambiente si risanerà nell’immediato, ammesso che vi piaccia il profumo di biscotto; oppure fate buone bistecche, oppure…cuocetelo, ma non troppo e poi gratinatelo.
Diamo anche al broccolo l’opportunità di farsi perdonare, perché sta nell’ordine delle cose, umane e non, il diritto ad una chance. broccolo gratinato Ingredienti per 4 persone: 400 g di cime di broccolo, 3 cucchiai di grana, grattugiato,30 g di burro, 30 g di farina, 300 g di latte, sale, pepe, un pizzico di noce moscata Occorrenti: casseruola, pentola, frusta, pirofila
Tempo di preparazione: 30 minuti

Nella casseruola fate fondere il burro, poi togliete la casseruola dal fuoco e aggiungete in un sol colpo tutta la farina. Mescolate con la frusta e rimettete sul fuoco. Rosolate la farina a fuoco vivace per circa un minuto fino a che non si sente uno sfrigolio e versate il latte. Con la frusta mescolate e unite il sale e la noce moscata. Portate a cottura per almeno 5 minuti. Rimestate con il cucchiaio di legno alternandolo alla frusta. Tagliate le cime del broccolo e lavatele. Lessatele per 7 minuti in acqua bollente leggermente salata, poi scolatele e sistematele su un largo piatto. Mescolate il grana alla besciamella. Ungete leggermente la pirofila di burro e coprite il fondo con una parte di besciamella. Sistemare le cime di broccolo nella pirofila e ricopritele con la besciamella   rimasta. Terminate con qualche fiocchetto di burro. Gratinate in forno a 200°C per almeno 10 minuti o fino a leggera doratura. Potete gratinare le verdure con una miscela di grana e pane grattugiato nella stessa quantità per lo stesso tempo di cottura se la besciamella non vi piace.

Consiglio: la gratinatura è un ottimo stratagemma per riutilizzare gli avanzi delle verdure.

Felice giornata!

Più del cappone potè…il cappone senza le ali

Se non abbiamo un cavallo possiamo ben far trottare un asino: potremmo andare ugualmente al passo, sfoggiare comunque un trotto elegante e forse anche azzardare un repentino galoppo – in verità non so se l’asino può galoppare. Ma se non abbiamo il cappone?
Esattamente questa fu la sorgente del quesito che, in tempi piuttosto lontani, una tenace e affaccendata contadina della Piccola Francia, che non era la Francia dei francesi, ma la Franciacorta, si pose la mattina della vigilia della festa del Patrono quando entrando nel pollaio, pronta all’efferato delitto, non trovò il cappone. Ad esser sinceri, fu il secondo, quello, di quesito, perché  il primo fu: “che fine ha fatto il cappone?”.
Se fosse stata una faina, un ladro, un manipolo di affamati, che il suo era un cappone con i fiocchi, tanti quante erano le piume, non era dato sapere. Ma da persona pratica qual’ era, “la tenace”, non si perse d’animo ed in primis  pensò a come allocare tutto quel ripieno fatto il giorno prima. Sparito il contenente restava pur sempre il contenuto e non si poteva nemmeno pensare di buttarlo, mai fosse!
Così, mentre passava dal pollaio all’orto, cercando di non calpestare niente di quel ben di Dio, vide la verza che s’apriva, apriva le sue foglie trasudanti di rugiada quasi in una sorta di sorriso benedicente, ed ebbe l’idea: avrebbe messo nelle foglie di verza tutto quello che sarebbe dovuto entrare nel cappone volato, sparito, rubato. Molto bene. In tal modo, avrebbe fatto. In seguito avrebbe cercato il suo cappone. E così fece.

Grande piatto questo, davvero grande. E che i bresciani abbiano a ringraziare la loro cucina, il cappone volato, la signora e la sua verza.
Si chiama Capù sensa ale, cappone senza le ali, e la storiella è inventata, poiché è più plausibile giustificare la sostituzione gastronomica con ragioni dettate dalla carenza – la carne era previlegio di pochi – che non con la fuga o con il ratto del cappone.
Posso definire la preparazione, non esagerando, controversa: sei ricette una diversa dall’altra, e tre nomi diversi. Da alcuni è citata come Capunsei , da alcuni come Capu’ sensa cosse (cappone senza cosce), piatto che prevede di arrotolare la salsiccia nella foglia di verza – infine, appunto, come Capù sensa ale (cappone senza ali).  Che il cappone se la sia data a gambe, perché non aveva ali, o che abbia spiccato il volo, perché non aveva gambe – d’altra parte non piace a nessuno farsi tirare il collo – ha poca importanza, quello che conta è l’invenzione gastronomica che trasforma la semplice necessità nel nutrirsi in vera e propria arte.

Capu’ sensa le ale

Mi sono attenuta alla ricetta che conoscevo e che trasferisco con l’unica variante d’aver sostituito al lardo il burro. E’ un piatto decisamente calorico e sicuramente per stomaci forti, ma tant’è e prendiamolo per tale, evitando di mangiare altro e servendolo con verdurine lessate o fresche.

capù

per 4 persone

occorrenti: ciotola, pentolino, padella, casseruola, colapasta, carta da cucina. spago da cucina, forbici
Ingredienti: 8 foglie di verza, 150 g di formaggio da grattugia misto, 100 g di pane grattugiato, 80 g di pasta di salame o salsiccia,  30+30 g di burro, 1/2 lt di brodo(vegetale o di carne), 2 cucchiai di cipolla tagliata molto sottile, 1/2 spicchio di aglio, 2 cucchiai di prezzemolo tritato, 3 cucchiai di olio, 3 cucchiai di conserva di pomodoro, sale e pepe
tempo di preparazione: 1 ora
grado di difficoltà: medio
Calorie: a richiesta…*

Sbollentiamo le foglie di verza dopo averle lavate in acqua leggermente salata, le scoliamo e le mettiamo su della carta da cucina. In una ciotola mettiamo il pane il formaggio una presa di sale, l’aglio schiacciato e il prezzemolo, aggiungiamo il brodo caldo e mescoliamo con una forchetta per amalgamare. In una padella facciamo rosolare la cipolla in 30 g di burro e aggiungiamo la salsiccia sgranata,  il composto di pane e formaggio  e lo rigiriamo fino a che non avrà ben assorbito il burro. Prendiamo le foglie e con la forbice tagliamo la parte bianca più dura, poniamo al centro un cucchiaio abbondante di ripieno e chiudiamo a involtino che legheremo con lo spago da cucina. In una larga padella scaldiamo il burro rimanente e l’olio, stemperiamo la salsa di pomodoro in un po’ di brodo e la aggiungiamo. Posiamo gli involtini nella padella e li portiamo a cottura coperta per circa 30 minuti, avendo cura di allungare con del brodo se il sugo tendesse a restringersi troppo e di irrorare ogni tanto con lo stesso gli involtini. Serviamoli ben caldi dopo aver tolto lo spago da cucina.

Varianti: è ammesso l’uso di altri involucri che potrebbero  essere foglie di bieta, erbette, perfino lattuga ottimo espediente per utilizzarne le foglie esterne.

*Calorie a richiesta significa che in caso di computo alto, le calorie non vengono precisate per non disincentivarvi all’assaggio – un po’ come succede per il prezzo a richiesta delle parure. Io vi consiglio di chiudere gli occhi, di non pensare alle calorie, e di assaggiare… domani sarà un altro magnifico giorno.

Buona giornata!

I casoncelli bresciani

Chiunque, una volta arrivato dalle mie parti,  chiedesse ai giovani e non qual è il piatto tipico della cucina bresciana, otterrebbe un’unica risposta: il casoncello. E se, incuriosito ne chiedesse la ricetta, potrebbe entrare in leggera confusione, perché su cento risposte ne avrebbe cento diverse. Zona che vai casoncello che trovi: di carne, di pane, di formaggio, di zucca, a seconda dei prodotti del territorio. E non solo, perché addirittura, di modi di far casoncelli, se ne possono trovare uno diverso per ogni casa, differente anche nella forma.
La ricetta che pubblico è di mia mamma, così come fatti da lei sono i casoncelli che ho fotografato. Sono gli stessi che faceva mia nonna per la sua osteria, ricetta ufficiale di casa mia, quindi. Buona preparazione!

 
occorrenti: macchina per tirare la sfoglia o mattarello, rotella dentata, pinza per la chiusura o forchetta
Ingredienti per 50 pezzi circa: 400 g di pasta fresca all’uovo, 150 g di carne trita, 50 g di salsiccia, 1 cipolla media,100 g di pane grattugiato, 150 g di formaggio grattugiato, prezzemolo, aglio, sale, spezie(cannella, noce moscata)

 

 

Per il ripieno: facciamo prendere colore alla cipolla nel burro-possiamo sostituirlo con sugo d’arrosto o midollo-tritiamo finemente la carne, la uniamo al soffritto e la rosoliamo. Lontano dal fuoco amalgamiamo gli altri ingredienti e rimettiamo sul fuoco, aggiungendo del brodo caldo. Teniamo sul fuoco il ripieno fino a che non si amalgamerà del tutto e il brodo si asciugherà.  Se lo desideriamo possiamo aggiungere un uovo. Il ripieno preparato in buona quantità si conserva coperto in frigorifero per 3 o 4 giorni. Una volta stesa la pasta, tagliamo  dei quadrati, posiamo una nocciola di ripieno al centro e chiudiamo a triangolo. Con l’apposita pinza o con l’aiuto di una forchetta li sigilliamo bene e li adagiamo su un vassoio infarinato. Si possono congelare e mettere in sacchetti.  Lessiamoli in acqua bollente leggermente salata per circa 5 minuti(il tempo di cottura dipende dallo spessore della pasta) e condiamoli con abbondante burro fuso, salvia e una generosa dose di parmigiano grattugiato, o con sugo d’arrosto.

casoncelli bresciani

Ho messo il racconto a fine pagina, così che chi non lo volesse leggere può passare oltre. Auguro a tutti una bella giornata.

Una storia d’amore e di casoncelli


Lui sapeva perfettamente  che sposandola non avrebbe avuto giorni tranquilli. Ma l’amava, l’amava davvero e non vedeva l’ora di renderla sua moglie. E così come chi, arrivato davanti ad un baratro, ne viene irrimediabilmente irretito e sente forze e voci che lo trattengono, ma niente possono, contro quella che è la sua attrazione istrionica, andò camminando soave, sulle note dolci dell’organo, verso il suo destino. Avrebbe potuto cambiarlo, non che non lo potesse fare- si sa che ognuno è l’artefice della propria sorte- ma lui, cambiarlo, non voleva proprio, desiderava quella donna ad ogni costo.
“E’ solo per il tuo bisogno di affetto.., cosa ci trovi? , non sa fare nulla…,  è brutta e segaligna come un manico di scopa,  lo sai che è matta…non stirerà, non laverà…non mangerai…, non ha ritegno…,  ti sposa per sistemarsi…” e questi erano i soliti ritornelli di una canzone passata di moda, per i quali esercitava ben volentieri l’arte umana del tubo passante: veloce, da un orecchio all’altro, e via!
Si sposarono in un brumoso mattino di Novembre, ancora buio alle ultime ore. Lei: intirizzita, in un piccolo abito di tulle color cenere di rose e la sua zazzera rossa che pareva un lampadario nei giorni di festa, scarpe col tacco e bouquet di fiori di campo. Lui: lungo lungo, nel suo abito migliore, la cravatta col nodo perfetto, le scarpe nuove e lucide con un’ imprevedibile suola rossa…rossa come il suo cuore, perdutamente innamorato.
Gli invitati, presi qua e là, occupavano i primi banchi: tra grandi e piccoli non se ne potevano contare più di venti. Nessuno osò dire a voce alta ciò che pensava- che quel matrimonio  non s’aveva da fare- forse per la voglia di mangiar casoncelli a volontà, e bere vino nuovo in una piccola osteria, in mezzo ad alberi vuoti e viti senza l’uva.
I frati s’erano tanto dati da fare e non solo per le nozze. Si può dire che nonostante non avessero potuto trattenerlo per sempre con loro, lo avevano curato come si cura un figlio: per  mezzo loro era cresciuto, per mezzo loro aveva potuto studiare da infermiere, e ora lavorava presso la casa di riposo del paese, un lavoro di tutto rispetto e buona retribuzione tale da potersi  permettere di metter su famiglia.
Che fosse quest’amore un fatto tutto suo gli altri lo sapevano ma non potevano capire. Per lui era più che normale amare e non essere ricambiato. In verità dell’amore non ne sapeva un granché, ma era strenuamente convinto che quello vero potesse smuovere le montagne. Questa era la sua idea, la sua incrollabile fede, il suo progetto.
La montagna granitica, che tutti definivano strana e imprevedibile, per non dire altro, faceva la callista in uno stanzino posto appena fuori dal centro del paese, dove, visti gli orari insoliti che il bugigattolo osservava, tutti pensavano non si levassero solo i calli, che non si offrisse solo consolazione al mal di piedi, ma un pronto intervento per altri mali, parimenti comuni.
Lui , che l’aveva conosciuta in quell’angusto contesto, da quel giorno avvertiva ogni callo come un segno divino. Eh sì, perché con il trascendente sapeva d’ avere un rapporto particolare, che andava al di là del familiare, spingendosi fino all’amicizia sincera. Dio per lui era più di un padre: gli era stato amico fraterno, mai l’aveva abbandonato, quando dopo molta sofferta indecisione aveva svestito il saio e si era aperto al mondo per colpa o merito di un callo; per visione estatica di una zazzera rossa che gli era parsa come il manto della Madonna; per  quelle mani bianco luna intente al lavoro, che sentiva quasi come imposte dall’alto.
Gli era costato abbandonare il convento che era diventata la sua casa da quando, nel suo giorno perfetto, i frati l’avevano amorevolmente raccolto dai gradini della chiesa. Ognuno ne aveva un po’, nella vita, di giorni perfetti, ma non molti, forse due o tre; potevano passare senza che ci si accorgesse di loro e quello dei gradini era un caso. L’altro suo giorno perfetto era stato quello del callo, e il terzo poteva essere questo di Novembre pieno di bruma e di fiori opachi, che lui aspettava, forse da sempre, in cui
furono dichiarati marito e moglie.
Per lei nulla cambiò, e nemmeno per lui, sempre stolido, fermo nella certezza, poiché era infermiere, di poter curare amorevolmente i dolori del corpo, quanto similmente quelli dello spirito, che in lui andavano crescendo di giorno in giorno.
Scorreva la vita e cresceva la mole del suo lavoro: se prima lavava stirava cucinava per sé, ora doveva farlo per due. A lei, questo lui lo sapeva, non piacevano i lavori di casa: parlava poco e lavorava molto, toglieva calli, ma non la polvere. Di lì a poco il loro nido d’amore avrebbe potuto tramutarsi in un ricettacolo di cose da non dire , se non ci avesse pensato  lui. Non gli dava fastidio: gli bastava di vederla rientrare, con la sua zazzera rossa e gli occhiali e mezz’asta. Adorava che lei mandasse le scarpe per aria e si catapultasse sulla poltrona, rimanendo a occhi fissi, guardando non si sa cosa…”è per la grande stanchezza” ripeteva dentro di sé “è solo stanca…”.
Una volta presa la decisione più difficile e cioè quella di dovere essere ogni giorno di buonumore, aveva preso, più o meno, anche tutte le altre e non si poteva lamentare,  doveva tirare dritto…Ogni tanto, però, si abbandonava ad un consolatorio sconforto. Allora usciva fuori alla chetichella e si metteva seduto per terra sotto una finestra che dava sul retro, si copriva il viso per nascondersi da quel mondo che tanto non lo avrebbe potuto vedere e… piangeva. Piangeva con un pianto disperato di  bambino, che gli sussultavano stomaco e cuore.
Ma accadde qualcosa: in una sera d’Estate che lo sgabuzzino era chiuso per ferie e tutti erano al mare- senza calli. Accadde che lei ebbe modo di sentire quel pianto di bambino e di avvertire chiari i sussulti di un uomo.
Lui, che non la vide, non l’avrebbe saputo mai. Lei, che mai glielo avrebbe rivelato, rientrò in casa. Scosse la testa, si passò le mani nella zazzera rossa e si mise a lavare i piatti di casa sua, per la prima volta.
Sarebbe ora molto interessante conoscere del come e del perché ad alcuni basti poco per capire che chi gli vive accanto  stia piombando in una rovinosa infelicità, mentre ad altri debba rendersi necessaria una folgorazione. Poco o tanto da folgorarsi non importa, l’importante è capirlo. E lei capì.
Come ogni giorno, a parte pochi, anche in quella calda e tranquilla mattina d’agosto il giornalaio stava seduto sullo sgabello, masticava uno stecchino che non finiva mai e aspettava i clienti abituali del quotidiano. Non si sarebbe di certo immaginato di trovare in mezzo alla profana processione proprio lei,  vestita come solo lei sapeva vestirsi, e non credette ai suoi occhi e alle sue orecchie:
“…ce l’hai un libro di cucina?”
“quale vuoi? …signora… ”
“uno…con tante figure”
“ ecco, madame…qui c’è anche la ricetta dei casoncelli bresciani”.
Pagò, si mise il libro sottobraccio, inforcò la bicicletta e prese, pedalando svelta, la direzione di casa, col vestito che s’era gonfiato all’aria e mostrava tutto ciò che non si doveva mostrare. Ma oramai, a lei, nulla importava, se non di poter rendere suo marito un po’ più felice.
Era già buio, quando lui entrò nel garage con la bicicletta. Scese. Stanco di una giornata calda e impossibile, come solo sa esserlo una giornata di lavoro quando tutti sono in vacanza, s’avviò verso casa asciugandosi la fronte con il fazzoletto e pensando a cosa avrebbe preparato per cena. Lei? c’era? non c’era?…tranquilla? arrabbiata?…
Era pur vero che da qualche giorno a questa parte, aveva notato nei suoi occhi  un’espressione leggermente persa; aveva ammirato i suoi gesti quasi dolci, ne aveva apprezzato le sincere intenzioni vedendola lavare i piatti e tentare lo spolvero. Fosse che il suo amore, quasi perduto, cominciasse proprio ora che stava perdendosi del tutto, a provocare smottamenti alla montagna?…meglio non pensarci, non  illudersi, che poi alla sofferenza della delusione nessuno si abitua facilmente. Così era la sua vita, così aveva scelto di viverla: mal-lavato, mal-nutrito, mal-stirato, non amato. E questo era il peggio.
Aprì la porta. Nessuno gli venne incontro, come al solito, ma in quei due metri che separavano l’ingresso dal salottino”buono”, avvertì un profumo inconsueto, che gli ricordò quello del convento nei giorni di festa. Tutto buio. Solo la luce fioca della sera che entrava dalla porta aperta lasciava intravedere quel poco che per lui produsse lo stesso effetto di un miraggio dopo giorni di deserto…si strofinò gli occhi per poter guardare meglio: casoncelli dappertutto…c’erano casoncelli dappertutto. Ce n’erano sopra il tavolo, sulle seggiole, sul divano, sulle poltrone e sui pensili, sulle mensole e nella credenza semi aperta dove c’era posto… perfino sul piccolo televisore. Era chiaro chi fosse l’artefice di tanta abbondanza, pari ad una moltiplicazione divina di pani e pesci: indossava un grembiule troppo grande e…farina dovunque…aveva farina dovunque.
“Ti sono sempre piaciuti, lo so…” e gli buttò le braccia al collo.
Preso così, alla sprovvista, riuscì solo a pensare alle devastanti conseguenze climatiche che il fortuito abbraccio avrebbe potuto causare: piogge, neve, trombe d’aria , uragani… persino terremoti , si divincolò con dolcezza.
“perché è tutto buio?” chiese con un filo di voce
“dose per 30 persone. Lasciare riposare la pasta  in un luogo fresco e buio. Questo c’era scritto sul libro…”
Si accasciò sulla poltroncina, preso da quello che attualmente potrebbe essere definito  un calo dello stress, srotolando tutta la sua vita, come si fa con un rullino: i gradini, i frati, il saio, i giorni perfetti, le chiacchere, il freddo di Novembre, l’amore che smuove, il non amore che fa piangere, la finestra sul retro, i casoncelli…già, i casoncelli. Dove li avrebbero potuti mettere? erano così tanti…
Si racconta che da quel momento preciso iniziò a piovere e piovve insistente per giorni, tanto che pochi ebbero il coraggio di uscire di casa. Non vi furono catastrofi, ma quella pioggia era comunque strana per quel tempo estivo, tanto strana che fu degna di memoria. Poi la pioggia finì e finirono i casoncelli, solo una cosa, che  iniziò quella sera, non ebbe fine.
A quell’abbraccio fortuito di quel giorno perfetto, ne seguirono altri, lunghi come il tempo che li aveva preceduti. E furono tanti, ma così tanti che davvero non si sarebbero potuti contare.

Rosita Ghidini Bosco